Tratta dall’intervista a Gastone Basson al “Corriere della Sera.
I conflitti del dopo guerra fredda conoscono un nuovo protagonista: il mercenario, il soldato di ventura che dopo la fine delle ideologie combatte non per una causa, ma per il denaro e il gusto di uccidere. E la Jugoslavia, laboratorio della “nuova guerra”, e’ il teatro del ritorno sulle scene di questa figura di combattente. Per questo motivo abbiamo deciso di pubblicare l’ intervista che segue a Gaston Besson, mercenario francese in Bosnia: intervista che e’ anche uno sconvolgente documento sull’ atrocita’ della guerra jugoslava. Come s’ e’ trovato a combattere in Jugoslavia? “Ero andato laggiu’ con la vaga idea di fare delle foto. Quando sono arrivato a Vinkovci, la citta’ stava per cadere. C’ era un’ atmosfera apocalittica. E nello stesso tempo un immenso slancio nazionalista, una folle lotta per la liberta’ : persone che non avevano mai combattuto andavano al fronte sapendo che si sarebbero fatte sventrare. Ho passato con loro una settimana in trincea. Poi, una notte, c’ e’ stato un attacco, non potevo scattare foto… mi sono trovato con un kalashnikov in mano”. E lo sapeva usare? “Si’ . Avevo gia’ combattuto. Avevo anche addestrato reclute nel Sud Est asiatico. La maggior parte dei croati non era preparata militarmente. Il loro non era un esercito. Avevo voglia d’ impegnarmi a fondo. Mi sono ritrovato a far parte del commando del Sesto battaglione di Hos, la milizia fascista nel partito croato, a Vinkovci. Vivevamo nelle cantine, uscivamo solo la notte nella no man’ s land, fra le linee serbe. All’ inizio, stavo con un tipo soprannominato “Chicago”, un pazzo furioso che ci faceva fare di tutto: dovevamo andare dritti davanti a noi, nelle linee del nemico; e affrontarlo cosi’ , come capitava. Ho lasciato perdere. E mi sono messo ad addestrare uomini. I combattimenti sono stati molto duri nel novembre e nel dicembre 1991. Sul fronte, comandavo un gruppo di dodici uomini. Ne sono sopravvissuti due. Era la fine della guerra in Croazia. Molti croati bosniaci gia’ tornavano in Bosnia. Io sono stato messo in un’ unita’ speciale croata, i Berretti verdi. Direzione: l’ Erzegovina”. Da dove venivano gli stranieri della sua unita’ ? “Comandavo una sezione di trenta uomini. I tre quarti erano croati che venivano dagli Stati Uniti e dall’ Australia; due erano croati francesi; c’ erano solo tre veri stranieri: un olandese, un inglese e un ex legionario francese, sergente maggiore poi diventato generale. Era un miscuglio di legionari, di ex militari e di avventurieri idealisti. Ci sono stati in tutto circa 500 stranieri in Croazia e in Bosnia”. Come mai un mercenario va a finire nella ex Jugoslavia? “Quelli che decidono di andare a combattere hanno spesso una trentina d’ anni. Pochi sono giovani come me. Nella loro vita s’ e’ spezzato qualcosa o hanno avuto un guaio o un colpo di malinconia e allora hanno deciso di andare a giocare con la morte. Se non vengono feriti o uccisi, dopo due o tre mesi ripartono”. Che paga avevate? “14.500 dinari, cioe’ 1.200 franchi all’ inizio della guerra e piu’ tardi, con la svalutazione della moneta croata, l’ equivalente di 300 franchi. Non combattevamo per il danaro. In Bosnia, la paga era inesistente; c’ erano dei “club” incaricati di distribuire il danaro che veniva dai croati all’ estero. Quando, dopo tre mesi di fronte, tornavamo a Zagabria, ci davano 1.500 franchi, che ci consentivano di pagare un albergo decente e dieci giorni di sbornie. Per dimenticare tutto. Laggiu’ ho perso nove amici. Franois, un avventuriero nato, affascinato dalla storia delle guerre: s’ e’ preso due pallottole nella coscia, se n’ e’ andato in cinque minuti. A 27 anni. Per me e’ stato un colpo. L’ adoravo. Pierre, un ex legionario, una pallottola in testa a Livno. E Jean Louis, ex militare dell’ esercito francese, morto nel dicembre 1991″. Perche’ tante perdite? Forse nei punti caldi venivano mandati gli stranieri? “No. Ci andavamo da soli. Per “fare qualcosa”. Non per fare la guardia. Partire o restare… eravamo noi a decidere. Bastava un incontro… e tutti i nostri piani cambiavano. Non cerchi il razionale…”. Sapevate almeno perche’ combattevate? “All’ inizio si’ . Per idealismo: l’ idea di difendere un Paese attaccato, di essere uno contro tutti, di farcela, di proteggere i villaggi… Per quanto in questa guerra si continuava a retrocedere. E poi via via qualcosa e’ cambiato. Non c’ era piu’ solo la guerra in quanto tale. Appena lasciavo il fronte ero ubriaco ventiquattro ore su ventiquattro”. Per dimenticare che stava diventando una bestia feroce? “La ferocia?… Si’ . Per dimenticare quella degli altri e la mia. Ogni volta che si torna dal fronte ci si rende conto di non essere piu’ la persona di prima. Allora si beve. Ho visto cadaveri senza occhi e senza orecchie. Era banale. Soprattutto dopo un combattimento, c’ era sempre qualcuno delle retrovie pronto ad accanirsi sui cadaveri. Noi ce ne infischiavamo”. E’ stato testimone di torture? “Di pestaggi, si’ . Di torture no. Noi tenevamo a bada i nostri uomini. Mi creda, non e’ che i serbi siano piu’ cattivi dei croati. La differenza sta nel lasciar fare, nella totale impunita’ di cui godono i soldati. Certo, ci sono stati stupri ed esecuzioni sommarie, ma solo durante i combattimenti. Mai sotto gli occhi degli ufficiali. A Zerio, a nord di Tuzla, all’ inizio della guerra, il villaggio serbo era circondato dai croati. C’ era una bella strada asfaltata che evitava ore di marcia sulle montagne. Per poterla utilizzare, ci eravamo messi d’ accordo con il popolo serbo. Nessun problema. Fino al giorno in cui l’ esercito serbo arriva. Gli abitanti del villaggio si svegliano e massacrano tre o quattro famiglie croate che vivevano li’ . Fermano una jeep e prendono il conducente, “Millo”, un amico tedesco croato. E’ stato ritrovato con le mani inchiodate sulla porta di un granaio. Gli altri prigionieri ci hanno raccontato i particolari: bastonate, bruciature di sigarette, metodo del “cavallo con maniglie”. Quei tipi non avevano paura di torturare a viso scoperto, sulla piazza del villaggio, davanti agli ufficiali. C’ era un’ impunita’ totale! Quando “Millo” e’ stato ritrovato, le sue mani erano insanguinate. Era stato inchiodato ancora vivo”. Mi sta parlando dei serbi. Eppure lei, ufficiale disciplinato, ha giustiziato dei prigionieri… “Si’ … Una volta sola… A Zerio… Durante i combattimenti”. Come? “E’ difficile parlarne. La fatica, la tensione… E’ un classico. Sento dalla radio che sono stati presi due miliziani armati. Vado sul posto. Era il mio ruolo d’ ufficiale. Dall’ atmosfera che regnava, capisco subito che i due tipi non ne sarebbero usciti vivi. Se li avessi mandati verso le retrovie, sarebbero stati fatti fuori dietro il primo cespuglio. E avrei dovuto punire i miei uomini. Stava a me farlo. Li’ , sul posto, siete voi che dovete decidere della vita o della morte della gente. Sul momento, era molto logico che fosse cosi’ “. Li ha fatti distendere per terra e gli ha sparato alla testa? Non e’ cosi’ ? “Si’ . A ogni modo, sarebbero morti. Mandarli nelle retrovie sarebbe stata una vigliaccheria da parte mia. Forse un giorno si dira’ che sono un mascalzone…”. O piu’ semplicemente che e’ un assassino. Se un giorno ci sara’ un tribunale per crimini di guerra nell’ ex Jugoslavia, lei potrebbe trovarsi seduto al banco degli imputati? “Su quel banco bisognerebbe allora far sedere tutti i serbi, tutti i croati e i tedeschi della Seconda Guerra mondiale, e tutti gli altri!”. Ha assistito ad altre esecuzioni sommarie? “Si’ . Durante i combattimenti. Parecchie volte. Ma cosa crede? Che si lasci andar via la gente tranquillamente, dopo aver gettato i fucili, con le braccia in alto? E’ cosi’ solo in tv!”. E i feriti? “Vengono giustiziati. In un campo o nell’ altro. Non ci sono molti prigionieri durante i combattimenti. Dopo… e’ diverso. Quando, una o due ore dopo, l’ adrenalina comincia a scendere, se un uomo esce da un granaio o da una cantina, gli si puo’ anche offrire una sigaretta o un caffe’ . E’ il lato irreale della guerra”. Cosi’ irreale come quel miliziano che cammina, solo, su una strada deserta in piena guerra? “Siamo sempre vicino a Zeric. Il villaggio bruciava, le case bruciavano, l’ erba nei fossi bruciava… E quel tipo camminava, il fucile a tracolla, l’ aria stravolta, guardando per terra, come se cercasse qualcosa fra i cadaveri. Non dimentichero’ mai quella visione. Non osavamo correre il rischio di andare allo scoperto, sulla strada, per farlo prigioniero. Abbiamo esitato per quaranta secondi. Poi l’ abbiamo abbattuto con un colpo in testa”. Perche’ l’ ha ucciso? Perche’ , anche questa volta, lei era il capo? “No, perche’ mi trovavo li’ . Quando uno imbraccia il fucile, l’ altro lascia fare. C’ e’ una tale stanchezza… Uccidere diventa una routine”. E quando andate “a caccia dell’ uomo”, anche quella e’ routine? “No. Lei non puo’ parlare di “caccia all’ uomo”! Lei sta parlando di cio’ che e’ successo verso Mostar, dopo la morte di Thomas Linder, un amico tedesco. Avevamo avuto tante di quelle perdite inutili! Bisognava che facessi “qualcosa”, che tornassi la’ , che me la prendessi con un carro armato, che uccidessi dei serbi, che uccidessi qualcuno. Dovevo sfogarmi, da solo, non come un ufficiale responsabile dei propri uomini. Siamo partiti in tre, tutti ufficiali, a fare un po’ di cecchinaggio sulla montagna intorno a Mostar”. Quanti uomini ha ucciso? “Sei o sette. Tre sicuramente. Gli altri son caduti. Se sono morti, non lo so”. Per uno di questi lei ha aspettato, con l’ occhio nel mirino, che la guardasse prima di sparare. Perche’ ? “Non lo so. Sul momento, forse, avrei saputo risponderle, oggi, non so piu’ …”. Ha sparato sui civili? “No. Mai. A Mostar, quando sorvegliavamo la citta’ , c’ era un gruppo di profughi sui quali sparavano i cecchini serbi. Nascosti fra gli edifici, uccidevano uomini, donne e bambini. Per nessun motivo. Nessun interesse militare. Non ne potevamo piu’ , abbiamo chiesto dei volontari e per quindici giorni abbiamo “visitato” edifici e uffici sfondando centinaia di porte a calci. Era molto pericoloso. Abbiamo preso una quindicina di cecchini in tutto, uomini e donne. Il mio gruppo ne ha presi tre. Uno e’ stato ucciso perche’ aveva sparato. Gli altri due sono stati consegnati ai croati”. Come sono finiti? “Sono arrivati presto, molto presto, ai piedi dell’ edificio. In Bosnia, la guerra e’ ancora piu’ feroce che in Croazia”. Lei ha scritto: “Oggi sono contento di aver ucciso”. “E’ vero. L’ ho detto. All’ inizio della guerra, ero venuto per aiutare la gente, per difenderla. Non per attaccare, non per uccidere. Poi si perde un amico, allora ci si vuole vendicare, si uccide, si e’ felici. Ecco cosa volevo dire”. E’ arrivato al punto di sparare anche sui Caschi blu dell’ Onu… “Sono arrivati in un brutto momento della guerra. Per dare una sorta di forza giuridica alle nuove frontiere, non per respingere i serbi. E pretendevano d’ essere dei liberatori! Tutti li hanno accolti male”. Perche’ si e’ ritirato? “Laggiu’ sono stato ferito quattro volte: un razzo, una granata di mortaio, una casa che crolla, il coma, le schegge di bombe nel corpo… Ero esausto, Franois era stato appena ucciso, avevo bisogno d’ ossigeno, sono tornato in permesso a Parigi. Una sera, ero in auto con un amico, eravamo ubriachi, siamo passati con il semaforo rosso. Un ginocchio schiacciato, l’ ingessatura che lei vede, un anno a zoppicare. Son finite le acrobazie! E’ un incidente automobilistico che mi fa smettere. Bizzarro”. Altrimenti? “Forse sarei gia’ ripartito per la Croazia. Chi lo sa?”. Jean Paul Mari Le Nouvel Observateur Corriere della Sera (Traduz. di Daniela Maggioni)kvkuy
Ho deciso di pubblicare questa intervista ( che potete trovare nel sito del corriere della sera) perché mi ha colpito davvero tanto, specialmente per il messaggio che la crudeltà in guerra diventa sinonimo di normalità. Un saluto; Hiitaly!